Ore 9:00 di una domenica mattina. Io, milanista incallito – anzi, milanologo – scorro la home di Facebook. Il caffè è finito e la prima sigaretta della giornata è bella che andata; tutto sotto controllo, finché quasi non mi prende un colpo: una pagina calcistica pubblica un post con una notizia che mi fa sobbalzare: “Secondo Tuttosport, l’Inter sta monitorando con attenzione Daniel Maldini…”. A corredo, una foto provocatoria di Daniel in maglia nerazzurra. Fortuna che ero già in bagno.

Dopo qualche schiaffo e due pizzicotti, realizzo di essere sveglio e che la notizia, per quanto anti-romantica, è plausibile. Daniel, nato e cresciuto a pane e “rossonerismo”, infatti, non è più un giocatore del Milan e, sebbene ora militi nel Monza – una squadra, tutto sommato, “milanofila”, passatemi il termine – si piange con un occhio solo. Ma non sarebbe poi così improbabile vederlo indossare colori meno graditi a noi “casciavit”, inguaribili nostalgici, vecchi arnesi memori di un milanismo che non esiste più.
 
Cari milanisti, dobbiamo farcene una ragione: lo slogan “il Milan ai milanisti” è ormai obsoleto e non significa più nulla. Quel “Milan ai milanisti” che portò Ancelotti, in rotta di collisione con la Juventus e a un passo dal Parma, a firmare per il Milan nel 2001 (non ce la faccio, troppi ricordi… cit.), non era solo uno slogan, ma una vera filosofia sportiva, un credo. Basti pensare a leggende come Franco Baresi, Billy Costacurta, Paolo Maldini, Mauro Tassotti e tanti altri, che firmavano contratti in bianco per continuare a onorare una maglia che, all’epoca, era tutto.

Sfortunatamente, però, alcune cose non cambiano mai. Tra queste spiccano, senza dubbio, la superficialità, del tifoso medio. Basta fare un rapido giro sui social per imbattersi nei soliti commenti: “Daniel Maldini è sopravvalutato, raccomandato, un privilegiato che vive di rendita grazie al cognome”. Eppure, chi conosce davvero la storia dei Maldini sa che portare quel cognome è più un fardello che un vantaggio.

E se qualcuno davvero pensa che il nome Maldini sia un passpartout per il calcio che conta, potrebbe soffermarsi a riflettere sulla carriera di Cristian, primogenito di Paolo e fratello maggiore di Daniel. Se così fosse, avrebbe calcato i campi della Serie A, forse indossando la maglia del Milan, come il padre e il nonno. Invece, ha avuto una carriera modesta, lontana dai riflettori del grande calcio. Se fosse stato “raccomandato”, la sua carriera avrebbe preso una piega diversa. E invece no, il calcio non fa sconti, neanche ai Maldini. E chissà se non se lo sia goduto più di chiunque altro il calcio, quello autentico, scevro da logiche finanziarie e lontano dai riflettori, dai pregiudizi e dai pettegolezzi. Chissà…

Essere un Maldini, dunque, significa ereditare una storia gloriosa, ma anche caricarsi di aspettative che possono diventare insostenibili. Se da una parte il DNA Maldini è un motivo d’orgoglio, dall’altra è una croce molto pesante che Daniel si trova a sopportare ogni qual volta scende in campo. Non è facile dimostrare il proprio valore quando tutti ti guardano con l’idea che sei lì solo perché “figlio di”. Ma attenzione, nulla di nuovo sotto il sole. I più giovani potrebbero non sapere che suo padre ha dovuto affrontare lo stesso tipo di pregiudizi, seppur in tempi e contesti diversi.

Agli inizi della sua carriera, in pochi avrebbero scommesso su Paolo Maldini. Figlio di Cesare, leggenda rossonera, della Nazionale e primo storico capitano milanista e italiano ad aver sollevato la Coppa dei Campioni (Wembley, 18 maggio 1963, Milan-Benfica 2-1), Paolo veniva guardato con sospetto. In molti pensarono che Niels Liedholm lo scelse per il suo cognome, ma, partita dopo partita, Paolino mise tutti a tacere. Non solo ha ereditato la fascia di capitano del Milan (prima) e della Nazionale (poi) da Sua Maestà Franco Baresi, ma è diventato il difensore più iconico di una generazione, un modello dentro e fuori dal campo, uno “one club man”. E nel farlo, il fenomenale numero 3 ha visto cambiare il calcio.

Nel 1986, Silvio Berlusconi acquista il Milan e irrompe nella Serie A, portando con sé una mentalità aziendale che trasformerà il club rossonero e, successivamente, l’intero campionato. Con Berlusconi giungono un esercito di medici, dietisti, preparatori, analisi dei dati, statistiche, comunicazione e marketing. Fattori che oggi diamo per scontati, come un’alimentazione adeguata e allenamenti personalizzati, erano allora una novità assoluta. Così, a poco a poco, la Serie A si afferma come il campionato più bello del mondo, attirando investimenti, soldi, emittenti televisive e interessi vari. La disciplina sportiva raggiunge livelli mai visti prima, mentre, paradossalmente, i valori e il romanticismo, così come le logiche sportive, iniziano a svanire.

E a proposito di logiche sportive che vengono meno, torniamo a Daniel. Come molti altri giovani calciatori, oggi vive un calcio molto più freddo e spietato rispetto a quello in cui militarono suo padre e suo nonno. Qual è la logica per cui una squadra, a corto di giovani talenti italiani da mandare in nazionale, decide di cedere un buon giocatore, oltre che un potenziale simbolo? È chiaro: non c’è più spazio per il senso di appartenenza o per i sentimenti, e non c’è più tempo per aspettare che un giovane cresca e sviluppi il proprio talento. Le società preferiscono acquistare calciatori stranieri già formati, pronti all’uso, magari in ottica “plusvalenze”, e le giovanili, una volta fucina di talenti, vengono trascurate perché investire sui giovani comporta rischi e richiede pazienza, e la pazienza, nel calcio moderno, è una moneta che nessuno è più disposto a spendere. Basti guardare ai settori giovanili italiani, ridotti a meri serbatoi per categorie inferiori, mentre i top club, anziché costruire in casa il proprio futuro, puntano al mercato internazionale. 

Inoltre, l’enorme aumento dei costi e dei capitali ha reso il calcio un ambiente elitario, con sempre meno persone in grado di investire in questo sport. L’era dei Presidenti-padroni, disposti a mettere mano al portafogli perché la propria squadra rappresentava “un affare di cuore”, è ormai finita; oggi sono i grandi gruppi finanziari a reggere il gioco, approcciandosi al calcio con la stessa mentalità speculativa con cui un finanziere si relaziona a Wall Street.

La storia della famiglia Maldini è un pretesto eccezionale per guardare con occhio critico alla trasformazione del calcio in Italia e nel mondo. Per assistere al passaggio da un contesto in cui questo sport era magia pura e popolare, legata alle maglie, alle città e ai suoi quartieri, a uno in cui dominano il denaro, i diritti televisivi, i grandi mercati emergenti, i contratti e le dinamiche aziendali e multinazionali. Una storia di famiglia per guardare a un calcio che è cambiato per sempre e che forse non sarà mai più lo stesso.

Tuttavia, sebbene il dio denaro sembri voler erodere, giorno dopo giorno, quel che resta del calcio che fu, un altro Dio, il Dio del calcio, si impone e ci regala un’emozione. Lunedì 14 ottobre 2024, al 74° minuto, anche Daniel Maldini esordisce nella nazionale maggiore, nel match vinto contro Israele, allo Stadio Friuli di Udine. È lo stesso stadio dove, nel lontano 1985, il padre Paolo esordiva in Serie A con la maglia rossonera a soli 16 anni. In tribuna, papà Paolo è visibilmente commosso, mamma Adriana è intenta a immortalare il momento e nonno Cesare, probabilmente, fa il tifo da lassù. Romanticismo puro. E come se non bastasse, cari milanisti, si riaccende in noi quella vecchia speranza, spezzatasi in Corea nel 2002: la speranza che un degno erede possa finalmente portare la tanto desiderata Coppa del Mondo in casa Maldini. E tutto ciò è bellissimo, vero?