L’arte del racconto sportivo: intervista a Fabrizio Gabrielli
“Dal portiere di notte a firma de L’Ultimo Uomo, storia di chi ha imparato ad aspettare il momento giusto per raccontare”
https://twitter.com/conversedijulio
https://www.instagram.com/gabriellifabrizio
Tempo di lettura 18 minuti
“Hay historias que necesitan su tiempo para ser contadas,
como el vino necesita su tiempo para ser bebido”
— Osvaldo Soriano
Lo riconosco dai colpi di tosse prima ancora di vederlo, seduto nel dehors dell’hotel vicino alla funicolare di Lugano dove mi sono precipitato in bicicletta. Il sole ticinese di novembre, che illumina le sue Vans verdi, sembra quasi fuori posto per un’intervista con un narratore del calcio sudamericano – ci vorrebbe più malinconia, più Soriano. Ma il tempo ci accontenterà: durante il viaggio di ritorno verso Milano, complice uno sciopero dei treni italiani che mi ha trasformato in autista improvvisato, il paesaggio cambierà progressivamente, fino a consegnarci a quel grigiore padano che sembra uscito proprio dalle pagine di un romanzo.
Gabrielli è seduto con una sigaretta – l’ennesima – tra le dita e il suo cappellino calato sugli occhi. Non è difficile capire perché sia stato soppranominato affettuosamente “El Turco”: in parte per quei tratti mediterranei che nel calcio rioplatense hanno sempre meritato questo soprannome, in parte per quel modo di fumare incessante, quasi rituale, che ricorda davvero i caffè di Istanbul.
“In Argentina i soprannomi sono molto sinestetici,” spiega Gabrielli quando gli chiediamo l’origine del suo appellativo ‘El Turco’. “È una parte per il tutto. Tutti gli spagnoli per estensione diventano ‘gallegos’, tutti gli italiani diventano ‘tanos’, tutti quelli un po’ più scuri di pelle indifferentemente o ‘negros’ o ‘turcos’.”
Sorride mentre racconta: “Per mia conformazione sarei assimilabile a quella roba là, il turco e quindi el turco. Però mi ha fatto molto piacere che mi abbiano dato questo soprannome, questo apodo, perché era l’apodo del ‘Turco’ Asad, che è stato uno di quei calciatori mezzo mitici del Vélez che vinse l’Intercontinentale. E quindi tutto sommato el turco me lo piglio, me lo piglio dai, lo porto a casa.”
C’è qualcosa di sorianesco in questo scrittore romano (Civitavecchia) trapiantato nel racconto del calcio sudamericano. Una figura che sembra uscita dalle pagine de “Il triste, solitario y final”, ma con una gentilezza disarmante che spezza subito ogni possibile stereotipo letterario. La conversazione fluisce naturalmente, come se ci conoscessimo da tempo, saltando dal calcio argentino alla letteratura, da L’Ultimo Uomo, Eduardo Galeano fino al mio racconto quasi ossessivo dell’allenatore del Lugano Mattia Croci-Torti – “chissà che non ci scriva un articolo”.
Insomma, Fabrizio Gabrielli è una persona che vorresti come amico, per fare i matti in un bar di Palermo – non quello siciliano, ma quello porteño, tra i locali hipster e le milonghe di Buenos Aires – o semplicemente per fare due chiacchiere camminando lungo il litorale tirrenico di Civitavecchia.
Non è un caso che proprio Gabrielli sia il traduttore italiano del “Libro degli abbracci” di Galeano. C’è qualcosa nel suo modo di raccontare le storie che ricorda lo scrittore uruguaiano: la stessa pazienza nell’attendere che una storia trovi il suo momento, la stessa attenzione ai dettagli apparentemente insignificanti che poi si rivelano decisivi. I suoi primi lavori rivelano anche l’influenza profonda di Cortázar, quella capacità di giocare con la struttura narrativa, di far danzare le parole sul confine tra realtà e finzione.
Uno dei primi articoli che mi fece innamorare di Gabrielli.
Il senso di rivalsa, la gestione della sconfitta. In Sudamerica c’è fame di emancipazione, e la fame a volte porta a prendere decisioni avventate. Ma è un contesto che lo impone. Io ho sempre avuto fame. Ma mai fretta. Forse se c’è un senso nella mia carriera è proprio quello: costanza, applicazione, coltivazione del talento. E molta pazienza, con i denti stretti”.
Dal portiere di notte allo scrittore sportivo: Incontri al tramonto
“Ho lavorato negli alberghi per 24 anni,” esordisce Gabrielli. “Ho fatto il portiere di notte per tre anni, una professione molto romantica. Dopo tre anni che la fai devi andare dal gastrointerologo, è normale questo perché ti sfalza tutti i ritmi. Però nel frattempo mi sono laureato, studiavo di notte, alle sette staccavo, prendevo il treno e andavo a fare gli esami.”
“Per anni è stato complicato scrivere: ci mettevo sempre il massimo dell’entusiasmo, ma inevitabilmente era una vita di sacrifici. Ho tolto molto tempo a chi mi stava intorno, lavoravo in albergo, portavo Chiara a cena fuori, crescevamo figli. Per scrivere rimanevano i ritagli di tempo e le ore in cui avrei dovuto dormire. Forse, però, è stata una palestra utile, che mi ha insegnato a metodizzare il lavoro, a lavorare più fronti. Dove non arrivavo, mi supportavano i mate notturni e l’entusiasmo”
Ma è proprio il lavoro in hotel che gli ha regalato alcuni degli incontri più significativi della sua carriera. “Un giorno arriva questa vagonata di donne dall’accento rioplatense molto spinto. Io sento l’accento rioplatense e tac, mi scatta proprio il glitch e comincio a parlarci.”
Quello che succede dopo sembra uscito da un racconto di Soriano: “A un certo punto una di queste mi fa: ‘Ma lei c’ha presente la radiocronaca del Mondiale dell’86, Argentina e Inghilterra?’ E io come un deficiente me metto a fargliela. ‘Arranca por la derecha…'” Gabrielli si ferma un attimo, sorride al ricordo. “Questa m’ascolta, batte le mani e mi fa… ‘Sai chi l’ha fatta? Mio marito. È in macchina.’ Io esco e in macchina c’era Victor Hugo Morales.“
L’incontro con L’Ultimo Uomo: Una scuola di scrittura
https://www.ultimouomo.com/deyverson-chi-e-storia-giocatore-piu-scorretto-sudamerica
Il passaggio alla scrittura sportiva avviene gradualmente. “Daniele [dell’Ultimo Uomo] mi telefona una mattina, perché io avevo pubblicato un pezzo sul classico Rosarino su Rivista Studio. Mi chiama e mi fa: ‘Ma perché l’hai pubblicato su Rivista Studio? Questa roba potevamo pubblicarla su L’Ultimo Uomo’.” L’ironia vuole che questa chiamata arrivi proprio mentre sua moglie sta per partorire: “Io dicevo ok ma magari ne parliamo un’altra volta perché sto per diventare padre.”
Ma L’Ultimo Uomo si rivela molto più di una semplice destinazione per i suoi articoli: diventa una vera e propria scuola di scrittura. Gabrielli ricorda un momento particolare che ha segnato la sua evoluzione come scrittore: “Una volta stavo scrivendo un pezzo su Salvador Cabañas e avevo dei grossi problemi perché non sapevo come affrontarlo senza farla diventare una storia di pietas totale.”
Il consiglio che riceve da Daniele in quell’occasione diventa una lezione fondamentale: “Me la ricordo questa frase e mi segnerà per sempre. Mi ha detto: se hai un problema nello scrivere qualcosa, scrivi di quel problema, che è la maniera per affrontarlo probabilmente in maniera più diretta.”
Gli occhi gli brillano mentre riflette su quanto questa esperienza abbia influenzato il suo lavoro: “Per questo io quotidianamente ringrazio L’Ultimo Uomo perché tutto quello che leggo è fonte di ispirazione per quello che faccio. L’Ultimo Uomo è una ridda di voci molto diverse tra loro e la ricchezza sta proprio lì: nel trovare la lettura di qualcosa che è affine a te ma soprattutto trovare qualcosa molto distante da te, ma che in realtà ti restituisce una visione angolare che tu non hai.”
Ma c’è un dettaglio che pochi conoscono: prima di diventare scrittore, Gabrielli era un rapper. “Facevo rap, ho fatto un paio di dischi, featuring con gruppi come Fit Broad. Abbiamo fatto questo pezzo che si chiamava ‘Quasi parla di relax’, che è stato il terzo pezzo più passato nei jukebox sardi dell’estate del 2000.”
Celebri anche le sue presentazioni rappate, sotto l’esempio di Sforbiciate.
https://www.youtube.com/watch?app=desktop&v=3g4Don0VxTk
La metamorfosi del giornalismo sportivo
Quando il discorso si sposta sul futuro del giornalismo sportivo in Italia, Gabrielli offre una riflessione lucida e priva di pregiudizi: “Il giornalismo sportivo soprattutto in Italia è molto forgiato su dei modelli consolidati che secondo me sarà complicato spodestare, e non è neanche una questione grafica.”
Si ferma un attimo, cercando le parole giuste per esprimere un concetto complesso: “La maniera in cui ti racconta il calcio la Gazzetta dello Sport non è rivolta solo ai dinosauri, è una modalità narrativa che è rivolta a un certo target che si approccia agli argomenti senza cercare l’approfondimento. Il racconto di sport è un’altra cosa e lì si dipana sotto un miliardo di punti di vista.”
L’evoluzione della narrazione sportiva: tra carie e longform
Parlando dell’evoluzione del racconto sportivo, Gabrielli prende in prestito una metafora dal mondo medico, citando l’esperienza di Donatella Di Pietrantonio: “Lei faceva la dentista e lamentava il fatto che in Italia vivere di scrittura è sostanzialmente impossibile, devi sempre affiancarla con qualcos’altro. Diceva: ‘per ogni carie curata è un capitolo in meno di un libro che avrei potuto scrivere e che non ho scritto’.”
Questa metafora dentistica gli serve per illustrare come il giornalismo sportivo si sia evoluto nel tempo: “Se noi pensiamo a cinque anni fa il racconto sportivo era tutta un’altra roba. L’Ultimo Uomo stesso è semplificativo dell’evoluzione: abbiamo cominciato scrivendo longform da 40.000 battute, tre a settimana. Adesso produciamo due-tre contenuti al giorno che hanno, per restare nella metafora, carie e ascessi. C’è il racconto da 20.000 battute che puoi leggere quando vuoi – la carie che è ancora in stato liminale – e poi c’è il pezzo d’attualità in cui in 10.000 battute cerchiamo di spiegarti una cosa che sta succedendo mentre te la stiamo raccontando.”
Il coraggio dell’attesa: quando le storie trovano il loro tempo
“Sono più da Super Tuscan che da Beaujolais,” sorride Gabrielli quando gli chiediamo del suo approccio alla narrazione. La metafora enologica non è casuale: come un buon vino, le storie hanno bisogno del loro tempo per maturare. “In realtà credo che una buona prassi, quantomeno per me, sia quella di far decantare,” spiega. “Una storia da fruizione immediata risente molto nella modalità d’approccio della fruizione immediata.”
In un’epoca ossessionata dall’immediatezza, Gabrielli propone una controtendenza: “A volte per chi scrive, soprattutto in quest’epoca in cui c’è l’immediatezza di qualsiasi cosa, i ritmi serrati, bisognerebbe trovare il coraggio dell’attesa. Il coraggio della decantazione, il coraggio di prendere una storia e metterla da parte per quando poi arriverà il momento giusto per raccontarla.”
E questo momento, precisa, “non necessariamente è un momento giusto contingente, un anniversario, una ricorrenza o perché quello di cui hai scritto muore, ma quando è il momento migliore in cui raccontare quella storia è per te.”
Il caso Messi: quando vita e narrativa si intrecciano
Per illustrare la sua teoria sulla “decantazione” delle storie, Gabrielli racconta la genesi del suo libro su Lionel Messi. Nel 2019, subito dopo la pubblicazione della biografia di Cristiano Ronaldo per 66thand2nd, sembrava naturale che Messi sarebbe stato il soggetto successivo. Ma il momento non era ancora maturo.
“La tempistica ha giocato un ruolo fondamentale,” spiega Gabrielli. “Tra il progetto iniziale e la realizzazione sono intervenuti diversi fattori, non ultimo il Covid. Ma la vera sfida era narrativa: in quel periodo, la storia di Messi rischiava di trasformarsi in un racconto fin troppo sentimentale, incentrato su un amore eterno con il Barcellona che sembrava immutabile.”
La complessità della storia andava oltre il rapporto con il club catalano. C’era anche la complessa relazione con la nazionale argentina, un intreccio di aspettative e delusioni che rendeva il racconto ancora più sfaccettato. Gabrielli ha scelto di attendere, lasciando che la storia maturasse.
La svolta è arrivata inaspettatamente: l’addio di Messi al Barcellona ha coinciso con la decisione di Gabrielli di lasciare il suo lavoro in hotel. “È straordinario come a volte le traiettorie personali si allineino con quelle dei nostri soggetti,” riflette. “Questi parallelismi non sono casuali: spesso sono proprio loro a fornirci la chiave interpretativa necessaria per raccontare una storia.”
La riflessione si chiude con un’osservazione personale che rivela quanto la vita dello scrittore si intrecci con le storie che racconta: “Cristiano Ronaldo, se io non fossi diventato padre nell’esatto momento in cui è nata l’idea di Cristiano Ronaldo, forse l’avrei scritto in una maniera diversa.”
Il lato oscuro del calcio argentino: oltre la romanticizzazione
Quando affrontiamo il tema delicato dell’assenza di giocatori di colore nella nazionale argentina, Gabrielli non si sottrae a una riflessione profonda e scomoda: “C’è un oceano di mezzo, basta guardare la cartina,” dice inizialmente, ma poi scava più a fondo. “Non puoi comprenderlo solo così, perché ci sono proprio dei canoni interpretativi diversi. Il fatto che non ci siano neri è una tradizione, un lascito storico. C’è stata una sostituzione etnica.”
La sua analisi diventa più cruda: “Quando hanno fatto la campagna di Las Andes, sostanzialmente hanno sterminato tutta la popolazione india. Le ‘cabecitas negras’, tutti quelli un po’ più di colore, con i capelli crespi, sono sempre stati ostracizzati. L’Argentina è stato e continua ad essere un paese eminentemente razzista.”
Il mondiale 2022: tra romanticismo e critica
La conversazione si sposta sul modo in cui raccontiamo il calcio argentino oggi: “Se vogliamo parlare di quanto l’abbiamo idealizzata romanticamente, di quanto sotto certi punti di vista l’abbiamo spinta all’estremo fino a farcela risultare indigesta, bisogna affrontare anche il tema di quanto ci risulta facilmente indigesta una roba.”
Quando il discorso tocca lo stile di racconto di Lele Adani durante i mondiali del 2022, Gabrielli offre una prospettiva interessante: “Adani ha restituito ‘argentinamente’ quello che andava restituito del calcio argentino. Le sue cronache sono diventate virali, sono adorate in Argentina perché ha fatto l’argentino.”
Poi aggiunge una riflessione sul contesto italiano: “Che l’italiano sia un popolo rosicone e che a quel mondiale abbia vissuto molto sulla sua pelle il fatto che non ci fosse l’Italia, boh, forse è anche una componente. Però io non capisco come non si potesse tifare Argentina, sai perché? Perché c’era una congiuntura astrale tale per cui era veramente la vittoria del lieto fine.”
La sua voce si ammorbidisce parlando di Messi: “Per l’Argentina in sé, sostanzialmente per Messi, era impossibile non sperare che arrivasse fino in fondo, che ricevesse in cambio almeno una parte di tutto quello che aveva rincorso per tutta la carriera.”
Galeano e Soriano: due sguardi sul calcio sudamericano
Quando parliamo delle differenze tra Eduardo Galeano e Osvaldo Soriano, due giganti della narrativa calcistica sudamericana, Gabrielli offre un’analisi acuta delle loro diverse sensibilità: “Galeano e Soriano hanno due punti di vista complementari ma non necessariamente simili. Forse anche questo è il motivo per cui Galeano è più amato da quelli che possono far parte di quella categoria vasta di rompicoglioni del realismo magico calcistico.”
“El tiempo, que en el fútbol transcurre a otro ritmo, un ritmo sin medidas, hecho de espacios que se alargan y se comprimen, como si el partido estuviera hecho de varios partidos que ocurren simultáneamente en distintas dimensiones” (“Il tempo, che nel calcio scorre a un altro ritmo, un ritmo senza misure, fatto di spazi che si allungano e si comprimono, come se la partita fosse fatta di varie partite che accadono simultaneamente in diverse dimensioni”.
E. Galeano,”El fútbol a sol y sombra”
“Soriano di contro è il realismo magico totale,” continua Gabrielli. “‘Il rigore più lungo del mondo’ è la trasposizione poetica di un mondo. Anche in Galeano c’è questa componente, ma in Galeano c’è soprattutto lo sguardo sociale, lo sguardo di condanna. Galeano è quello che ha parlato dello schifo che c’è sempre stato nel mondo calcistico, a livello della FIFA. Ha parlato degli ultimi, dei diseredati, dei ‘senza niente’, li chiamava lui, ‘i nessuno’.”
Maradona: due prospettive di un mito
Questa differenza di approccio emerge chiaramente nel modo in cui i due autori hanno raccontato Maradona. Gabrielli racconta un episodio emblematico: “Soriano è stato al ritiro dell’Argentina a Trigoria durante Italia ’90. Maradona si è messo a palleggiare davanti ai suoi occhi e a un certo punto alla fine gli ha detto: ‘L’ho toccata con la mano oppure no?’ Soriano ha detto no, e lui ha detto: ‘Sì, invece, solo che non se ne accorge nessuno.’ Soriano era super affascinato da questa storia, dallo strato mitico che c’è dietro.”
Gabrielli ha raccontato in un podcast la vicenda di Luca Prodan: un cammino lastricato di eroina, eccessi e chitarre distorte, una storia maledetta che dall’Urbe lo ha portato in Scozia e alla Perfida Albione, fino al capolinea di Buenos Aires, dove muore nel 1987 a soli 34 anni, ma dopo aver rivoluzionato per sempre – con i suoi Sumo – le sorti della musica in un’Argentina che stava uscendo a fatica da anni di feroce dittatura, impazziva per Diego Armando Maradona e anche attraverso il punk e il rock cercava si svegliarsi dal torpore violento del regime dei colonnelli.
Le squadre del cuore come lenti narrative
Le loro squadre del cuore hanno profondamente influenzato il loro modo di raccontare il calcio. “Il San Lorenzo ha una delle creazioni più mitopolitiche del calcio argentino,” spiega Gabrielli. “Tutta quella storia sulla nascita, sul ‘destierro’ del San Lorenzo al quale hanno buttato giù lo stadio per costruirci un Carrefour, questa mitica del ritorno a Boedo… Per Soriano è stata potentissima, lo ha accompagnato anche lontano dall’Argentina.”
E poi c’è il Nacional di Montevideo, con le sue storie straordinarie: “La storia di Abdón Porte ti fa capire cosa significhi l’immedesimazione calcistica. Era il capitano del Nacional negli anni ’20. Quando il suo posto in squadra non era più garantito, dopo l’ultima partita di campionato, è tornato allo Stadio Centenario, è arrivato al centro del campo, ha tirato fuori una pistola e si è ucciso, lasciando un biglietto in cui chiedeva scusa alla futura moglie, ma diceva che l’amore per il Nacional era più forte. Oggi c’è una curva nel Centenario che si chiama Settore Abdón Porte.”
Due stili, una passione
Gabrielli conclude evidenziando come queste diverse sensibilità si riflettano anche nello stile: “Galeano è stato un osservatore molto distaccato a tratti, uno che ha condannato un sacco di cose, a partire dal traffico di gambe che venivano dal Sud America. Interpretava il calcio come una continuazione delle ‘vene aperte dell’America Latina’: laddove è finito lo sfruttamento incondizionato del rame, dell’oro, dell’argento, poi a un certo punto è cominciato quello delle gambe dei calciatori.”
“Sono molto diversi in realtà,” conclude, “perché Soriano non si è mai espresso in una critica così feroce. Anche a livello di scrittura sono completamente diversi: Galeano è tagliente, tranciante, arriva dritto su quello che ti deve dire e te lo dice con frasi che ti tagliano come l’aria quando vai a vedere una partita sotto tramontana.”
Podcast di F. Gabrielli: Un viaggio in treno lungo 22 ore da Cordoba a Buenos Aires tra artisti, performer e ballerini.
Gli abbracci nel calcio: momenti di pura emozione
Avendo tradotto “Il libro degli abbracci” di Galeano, chiediamo a Gabrielli se c’è un abbraccio particolare nel calcio che gli sarebbe piaciuto raccontare. “Quelli che mi hanno più colpito negli ultimi anni sono stati tre abbracci dati peraltro dalla stessa persona. Paredes è stata la prima persona ad abbracciare Messi dopo il gol, dopo il fischio finale della partita di qualificazione mondiale del 2018 in Ecuador, dopo la Coppa America 2021 e dopo il Mondiale 2022. Abbracci in cui c’era tutto l’affetto.”
Ma c’è un abbraccio particolare, legato alla sua infanzia di tifoso romanista: “Semifinale Coppa UEFA 1989-90. Roma-Bröndby. Al settantesimo segna il Bröndby e la Roma tecnicamente è fuori dalla finale. Al novantesimo c’è un pallone al limite dell’area e arrivano Feller e Rizzitelli che calciano praticamente insieme, tipo gemelli Derrick. Ho in mente l’immagine del pallone che entra e di loro che in ginocchio si abbracciano.”
La voce gli si ammorbidisce mentre conclude: “Io ero piccolo, avevo nove anni, ricordo stavo a cena. Ho terminato la cena in quel momento perché mi si è chiuso lo stomaco l’emozione. È stato il primo dei mille ‘a gioia’ che avrei vissuto nella mia carriera da tifoso romanista.”
Il calcio come strumento pedagogico
Oggi, Gabrielli vive il calcio principalmente attraverso gli occhi dei suoi figli: “Mio figlio di 5 anni non ha ancora mai visto la sua nazionale a un mondiale e quindi per lui la Roma è la vera nazionale. Quando ci guardiamo le partite della Roma, lo vedo che si chiede perché non vinciamo mai e mi sembra un ottimo insegnamento pedagogico.”
“La capacità di elaborare la sconfitta è un ottimo insegnamento in ogni campo,” riflette, “e il calcio offre un ottimo spunto che tante altre cose non offrono perché nel calcio la sconfitta è anche il punto di partenza per la potenza dei riscatti.”
Ultima cosa: Buffa dice (in un video intervista che avete fatto) che “da noi è tutto finito, contano solo tattica e fisico”. Come si può recuperare la dimensione culturale del calcio?
Tornando a innamorarci della consapevolezza che ogni atleta, prima che un atleta, è un uomo. Con una storia, immerso in una società, figlio dei suoi tempi.