La crisi del Manchester United parte da lontano

L’ennesimo cambio di guida tecnica pone una seria riflessione sui destini del club mancuniano e sulle cause che hanno portato allo sgretolamento di un impero.

L’ufficialità di Ruben Amorim è stata annunciata da diverse settimane e in casa Reds sono già partiti previsioni e vaticini sul destino prossimo di uno dei club fra i più titolati al mondo. Dopo essersi conclusa l’avventura di Ten Hag, avviatasi nell’ormai lontano maggio 2022 e conclusasi lo scorso mese, lo United cerca quella scossa per cercare di riacciuffare quelle posizioni che per blasone e prestigio, i suoi tifosi si aspettano di riassaporare da troppo tempo.

L’ennesimo cambio allenatore: l’ultimo di una lunga serie

L’onda della crisi che ha travolto il club mancuniano parte da lontano, più precisamente con il ritiro di Sir Alex Ferguson nell’ormai lontano 2013. Da allora sono ben nove gli allenatori messi sotto contratto: tutti investiti dell’immane compito di riportare ordine nel caos e successi fruttuosi con cui far sì che i tifosi possano bearsi.

Se escludiamo gli incarichi ad interim di Ryan Giggs, Michael Carrick e da ultimo dell’ex bomber Ruud Van Nistelrooy, nessuna delle precedenti gestioni è riuscita a convincere appieno. Se con l’avvento di David Moyes nell’immediato post Ferguson, lo United ha pagato forse una certa avventatezza nel non concedere fiducia al tecnico – nonostante fosse stato indicato proprio da Ferguson come successore e con un maxi contratto di sei anni – chiamato a garantire fin da subito continuità di rendimento e risultati, anche percorrendo strade ben più note ai più i risultati sono stati di poco migliori.

I più quotati Louis Van Gaal e José Mourinho, all’epoca tecnici di primo piano e navigati nell’olimpo del calcio mondiale, non hanno avuto vita facile. Dopo la solita partenza in pompa magna, l’entusiasmo si è via via dileguato, lasciando spazio ai malumori generali, raggranellando qualche sporadica coppa qua e là, ma non riuscendo a convincere nessuno dei due, sia per la proposta di gioco sia per l’inimicizia creatasi nello spogliatoio e fra le varie superstars con le quali si sono dovuti confrontare.

I palliativi in casa Reds: l’esperienza Solskjaer e la parentesi Rangnick

Se i due di cui sopra, considerati vecchi volponi del mestiere, hanno steccato nel lungo periodo, non si può dire che i Reds abbiano avuto più fortuna quando si è provato a battere strade differenti.

L’arrivo sulla panchina della leggenda norvegese Ole Gunnar Solskjær ha permesso ai tifosi di ritrovare quantomeno una figura capace di suscitare un minimo di empatia, ma incapace anch’essa nel lungo periodo di affermarsi con una proposta di gioco concreta e vincente. Con il senno di poi, l’operazione Solskjær è apparsa più come una facciata utile, in stile operazione simpatia, volta a coprire le numerose magagne societarie (di cui parleremo a breve) che agiscono carsicamente ed erodono le fondamenta dello United.

Il breve excursus der Professor Ralf Rangnick, ex Lipsia e ora CT dell’Austria, è apparso fin da subito come un fallimento annunciato. Una figura così autorevole ma dimessa, priva di carisma spendibile ad altissimi livelli, più legata alla gestione di un club da dietro una scrivania piuttosto che sul campo non poteva far fronte a tutte le situazioni spinose in cui si era infilato lo United nel corso degli anni.

Questa mancanza di credibility non gli ha permesso di prendere in mano le redini di uno spogliatoio già apparso piuttosto disunito e scombiccherato, gravato oltretutto dal ritorno di una delle sue vecchie glorie, Cristiano Ronaldo, ad aggravare ulteriormente la situazione in questa grande e lussuosa polveriera che è diventato lo United degli ultimi undici anni.

La carta Ten Hag: lo United prova (malamente) a svecchiarsi

I vari approcci sperimentati dai differenti allenatori si sono sempre risolti con un nulla di fatto ed è qui che la dirigenza decide di giocarsi la carta Erik Ten Hag. Il 54enne olandese, in virtù dell’esperienza maturata con l’Ajax dove ha ottenuto diversi trofei e riconoscimenti, era partito con i favori del pubblico che plaudiva all’idea di affidarsi ad un coach ritenuto epigono – in quel momento – di un’idea di calcio moderna e giovanile, svincolata da varie logiche di legacy posticce e di rinomatezza dell’allenatore.

Tuttavia, sono bastate due stagioni e mezzo per veder crollare ignominiosamente ogni aspettativa sul tecnico costretto ad uscire di scena mestamente dal club dopo aver lasciato i Reds a metà classifica e senza un’identità di gioco codificata. Tanti i milioni di sterline spesi (più di 400) e tanti gli acquisti portati richiesti da Ten Hag, tra cui diverse vecchie conoscenze dei trascorsi in Olanda, alla sua corte. Antony, Lisandro Martinez, Hojlund, Mount, Onana, Mazraoui, De Ligt, Zirkzee.

Questi sono alcuni degli investimenti arrivati a vestire la casacca dei Reds su cui il tifo ha riposto le sue speranza. Ad oggi, però, è difficile stabilire chi sta rendendo i soldi spesi o chi ha bisogno dell’ennesimo cambio per trovare le motivazioni adatte. È evidente allora che bisogna rivolgere il proprio sguardo altrove, più precisamente ai piani alti.

Capitolo società: mancanza di lungimiranza e scelte approssimative

Un’altra grossa fetta dei problemi che affliggono lo United più che alla sfera tecnica afferiscono maggiormente alle strutture di vertice. Conviene rivolgere il proprio sguardo a ciò che sta più in alto, per capire da dove arriva la crisi che investe questa vecchia nobile del calcio inglese.

Gli attuali proprietari, la famiglia Glazer, subentrati nell’ormai lontano 2005, sono ritenuti da molti come i principali autori di questo sfacelo. Molto attenti alla gestione economica del club, meno alla parte sportiva, i Glazer secondo i più attenti analisti non sono stati in grado di proiettare lo United nel calcio contemporaneo, affidandosi spesso ad una gestione ritenuta quasi obsoleta per una società che vuole competere nell’olimpo del calcio globale.

La famiglia procedette ad acquisire il club tramite un meccanismo finanziario (il levaraged buyout) che aumentò in maniera drastica l’indebitamento fin da subito, rendendo difficili investimenti in altri settori. Negli anni il debito è cresciuto, così come i tassi di interesse, ma ciò non ha impedito ai proprietari di distribuire dividendi ai propri azionisti nonostante la difficilissima situazione economica. Ciò ha portato a numerosi malumori nella piazza mancuniana che a più riprese si è scagliata contro questo tipo di gestione poco attenta e che poco attiene ad un modello sportivo sano.

Inoltre, una grossa parte di investimenti è stata effettuata per accontentare i desiderata degli allenatori di turno, spendendo vagonate di sterline in mercati faraonici che hanno contribuito a sfaldare ulteriormente lo United, rendendolo ancor più disomogeneo e contribuendo a creare ulteriore caos.

Allo United, infatti, è sempre mancata la figura del direttore sportivo, introdotta solo nel 2021 nella persona di John Murtough. Prima di allora, ci si affidava alla sapienza del grande vecchio Ferguson richiedendo all’allenatore di sobbarcarsi di una tale mole di compiti a cui far fronte tramite doti taumaturgiche e carismatiche, da infondere a giocatori, piazza e dirigenza. Un’idea che poteva funzionare un tempo, in un calcio più semplice e basilare, meno al giorno d’oggi dove le varie competenze nel calcio sono frammentate e ultraspecialistiche.

Ruben Amorim: panacea o prolungamento dell’agonia?

Cosa è lecito dunque attendersi dall’avvento del neotecnico lusitano? Innanzitutto, la capacità di reggere le forti pressioni interne ed esterne del club: lo United negli anni è diventato un tritacarne che fa strame di chiunque osi solo avvicinarsi e sarà difficile agire in ogni caso.

La società si aspetta molto da Amorim in termini di impatto e di prestazioni e l’hype attorno alla sua nomina è già piuttosto pressante. In questo senso, c’è chi saluta la sua venuta come una manna dal cielo e chi, più prudente e sfiduciato, ha già l’impressione di una sorta di re-editing della storia di Ten Hag, arrivato anch’egli con grandi aspettative poi tramutatesi in poca cosa.

La grancassa che accompagna favorevolmente l’arrivo di Amorim potrebbe ritorcerglisi contro come un boomerang ed instillare nell’opinione pubblica ancora più aspettative e pressioni nell’immediato, più di quanto effettivamente ve ne sia bisogno.

Sicuramente ciò a cui dovrà far fronte il tecnico ex Sporting sarà un ambiente sfiduciato, a pezzi, a partire dallo spogliatoio. Sarà interessante, inoltre, vedere l’adattamento di Amorim da uno Sporting costruito a sua immagine e somiglianza ad un Manchester United derelitto e confusionario. Sarà curioso vedere se Garnacho, Rashford, Hojlund, Mainoo e compagnia beneficeranno della cura Amorim: il coach ha dimostrato di saperci fare con i giovani – Gyökeres ne è la testimonianza più vivida – e vedremo se il portoghese sarà l’uomo dai destini forti di spallettiana memoria oppure sarà stato solo l’ennesimo bislacco esperimento di uno United sempre più alla deriva.